The hand of Back

La storia dell’equivalente ovale della mano de Dios

Che cosa hanno in comune il più forte calciatore della storia (scusa Leo, forse in fondo sarai anche d’accordo) e il numero 7 dell’Inghilterra campione del mondo di rugby nel 2003? Nulla, o quasi.

Uno è argentino, vestiva la numero 10 ed è cresciuto in assoluta povertà alla periferia di Buenos Aires. L’altro, inglese, faccia tagliata e capelli biondi assai diradati, sembra un sergente dell’esercito e di latino ha davvero poco. Eppure, entrambi protagonisti del rispettivo sport, hanno deciso una finale importante con un proibitissimo colpo di mano.

Mentre Maradona veniva improvvisamente investito dalla volontà divina, segnando ‘un poco con la cabeza de Maradona y otro poco con la mano de Dios’ il gol del vantaggio sull’Inghilterra nel sentitissimo quarto di finale di Messico ’86, Neil Back gli imprecava contro davanti alla tv, a migliaia di chilometri di distanza, nella Coventry nella quale iniziava la sua carriera di giocatore di rugby, uno sport che si stava avvicinando ad un semiprofessionismo nascosto dalla retorica, soprattutto dalle parti del regno di Elisabetta.

Back è stato un terza linea paradigmatico: uno di quei numeri 7 arcigni, un cagnaccio al continuo inseguimento dell’ovale, delle tibie e delle costole delle aperture avversarie, della guerra di trincea fra gli avanti. Era il piccoletto cattivo della terza linea che ha fatto grande l’Inghilterra del 2003: c’era il gigante Lawrence Dallaglio, il lavoratore oscuro Richard Hill e il piccolo ma cattivo Neil Back, col suo metro e settantacinque scarso.

Sessantasei caps con la nazionale della Rosa, annovera 83 punti segnati. Di questi, 80 sono figli di 16 mete, più 3 marcati con un drop, l’unico avanti della storia del rugby inglese ad averne segnato uno. Tutto questo a testimoniare che, come recita il titolo della sua autobiografia, size don’t matter.

È stato un Tiger a vita: reclutato da Leicester nel 1990 dopo due anni a Nottingham, è rimasto a Welford Road per 18 anni, accumulando 339 presenze ed entrando, a fine carriera, nello staff tecnico della società. La sua carriera non è stata esente da controversie: nel 1996 ha ricevuto sei mesi di squalifica per aver spintonato l’arbitro nella finale di coppa anglo-gallese contro Bath, fatto per il quale si era scusato dicendo di aver confuso i colori delle maglie.

Niente però è stato come quello che ha combinato negli ultimi minuti della finale di Heineken Cup del 25 maggio 2002. Al Millennium Stadium di Cardiff si trovano di fronte le due giganti del rugby di inizio millennio: i Leicester Tigers di Martin Johnson, Lewis Moody e, per l’appunto, Neil Back contro il Munster di Stringer e O’Gara.

Proprio il 10 irlandese apre i giochi con due piazzati per portarsi sul 6 a 0, nonostante i primi minuti abbiano visto ben due mete annullate a Leicester. Poi Tim Stimpson, l’estremo degli inglesi, combina con Geordan Murphy per offrire al compagno la prima meta dell’incontro al ventiseiesimo. Si va quindi all’intervallo sul 6 a 5 per Munster.

Nella ripresa i Tigers sembrano averne un po’ di più: O’Gara segna tre punti al 50’, ma è l’ultima marcatura dei suoi. Entra il mediano di mischia Harry Ellis per Jamie Hamilton e la gara cambia, Austin Healey segna la meta del sorpasso intorno all’ora di gioco, Tim Stimpson centra i pali a 10 minuti dalla fine per allungare sul 15 a 9.

La partita si decide nel finale. Con la partita agli sgoccioli il Munster ha una mischia ben profonda nei 22 metri avversari. Le prime linee ingaggiano bene e Peter Stringer si china per introdurre il pallone. Neil Back è un fulmine: legato in terza linea dalla parte opposta dell’arbitro, schiaffeggia il pallone dalle mani del numero 9 e lo mette tra i piedi del suo tallonatore, Dorian West. I suoi compagni non battono ciglio: vedono il pallone e sospingono gli avversari, in un attimo il pallone è fra i piedi del terza centro Martin Corry, poi Ellis alza per Healey che sparacchia a centrocampo.



A niente valgono le proteste di Stringer e compagnia, che sembrano talmente sorpresi da non riuscire nemmeno a credere a quello che è accaduto. L’arbitro francese Joel Jutge, che stava sorvegliando il comportamento dei piloni dalla parte opposta, non si è accorto di nulla, tantomeno i suoi assistenti. La partita finisce poco dopo, i Leicester Tigers vincono la seconda coppa consecutiva.

“Cose di questo genere succedono continuamente, è solo che stavolta si è visto in TV” ebbe a dire Martin Johnson nel dopopartita.

“Se danno un vantaggio alla tua squadra, ovviamente dirai ‘grandioso’, e se sono gli altri a farlo a te non ne sarai felice, ma sono cose che succedono, semplicemente non sempre all’ultimo minuto di una finale così importante”

Back, con una porzione di cinismo, sostenne il proprio comportamento: “Queste partite si giocano su piccoli vantaggi e sul fare quello che puoi per riuscire a vincere. Quella era una mischia cruciale. La nostra difesa ha tenuto bene e io ho fatto quello che dovevo per assicurarci la vittoria.”

“Per certi versi, vorrei non averlo fatto – ha detto anni dopo – Devo essere onesto: non mi piace che le persone pensino che io sia un imbroglione. Non voglio questa nomea . Non sono un imbroglione. Ho avuto un sacco di messaggi su quel fatto, soprattutto negative. C’erano lettere che dicevano che ero un imbroglione, alcune di loro scritte da tifosi del Leicester, e la cosa mi ha ferito.”

“E’ una cosa che rimpiango perché non mi piace pensare che, per quel singolo accadimento, la gente pensi di me che sono un baro. Spero che nel dare qualsiasi tipo di giudizio, la gente guardi a quello che ho fatto per tutta la mia carriera, e non mi giudichi solo per quel singolo momento.”

Ma il singolo momento, come succede tante volte, sopravvive anche alle coppe del mondo alzate al cielo, ai titoli di Premiership, ai Sei Nazioni e ai tour dei Lions. E quel singolo momento, noto agli anglosassoni col nome di the Hand of Back, rimane nel mito, scolpito come l’ultima volta in cui l’astuzia farabutta di un rugby che non c’è più l’ha fatta franca davanti agli occhi di tutta Ovalia.