O’Shea se ne va: visionario o perdente di lusso?

Sono passati quattro giorni dal passo indietro di Conor O’Shea. Un atto dimissionario che, diciamocelo francamente, era abbastanza prevedibile. Non un fulmine a ciel sereno, ma un colpetto alla stabilità vera o presunta che si era creata intorno alla squadra nazionale. Seppur il processo di recruiting per il prossimo head coach fosse già in atto, sapevamo che almeno fino al Sei Nazioni 2020 in sella ci sarebbe stato il tecnico irlandese. Un’appendice di sei mesi prima di concludere il contratto in essere con FIR in scadenza a giugno 2020. Conor O’Shea invece ha tagliato corto, tuffandosi subito sul nuovo lavoro con la RFU ed evitando di fare la figura del marito separato in casa mentre la moglie si prepara a ricostruirsi un futuro con il nuovo fidanzato.

Questa decisione implica però un breve processo di analisi della sua gestione, cercando di rimanere ancorati alla realtà e concentrati sui numeri che contraddistinguono il triennio appena concluso.

I numeri, i momenti migliori, i peggiori e quelli sfuggiti.

O’Shea ha guidato gli azzurri in 40 partite, vincendone 9 e perdendone 31. Il ruolino di marcia dunque è del 22,5% di vittorie. Non troppo lontano dai numeri dei suoi predecessori.

Fra le cartoline da stampare e incorniciare ci sono senza dubbi le vittorie contro Sudafrica,  Giappone e  Georgia. Tre partite diverse che sono diventate importanti per il periodo storico che viveva la nazionale. La prima nel 2016, vinta per 20 a 18, rappresenta il successo della speranza, a cinque mesi dall’insediamento di O’Shea, a una settimana dalla batosta romana con gli All Blacks. La seconda nell’estate 2018, vinta per 25 a 22 a Kobe, maturata mentre i critici attaccavano la nostra nazionale per aver perso il primo test con il Giappone una settimana prima. Come se i nipponici soltanto un anno addietro fossero un’accozzaglia di mezze calzette. La terza è la sfida che doveva legittimare la presenza nel Sei Nazioni agli occhi del mondo ovale. Italia vs Georgia. A Firenze nel novembre 2019 gli azzurri hanno risposto presente e spento il fuoco dei rampanti caucasici con un 28 a 17 che non racconta neanche troppo fedelmente la superiorità vista in campo.

Le sconfitte di contro sono molte. Alcune difficilmente digeribili. Ne scelgo tre. La prima arriva come un macigno esattamente una settimana dopo la vittoria col Sudafrica, quando Tonga a novembre 2016 vinse a Padova per 19 a 17  ricordandoci quanto fragili possono essere gli equilibri motivazionali del gruppo azzurro. La seconda è il 63 a 10 sigillato a Roma dall’Irlanda nel febbraio del 2017. Una sensazione di impotenza di fronte ad un avversario, poi difficilmente riprovata nelle ultime tre edizioni del Six Nations. La terza ed ultima è quell’ Italia – Francia del marzo 2019. Di fronte ad un avversario più insicuro di un adolescente al primo giorno di liceo, non siamo stati capaci di fare la voce grossa e vincere una partita fondamentale per la nostra stagione.

I famosi “momentum” sfuggiti invece hanno confermato che gli azzurri a certi livelli ci possono stare. Sconfitte interpretabili che arrivano il 17 marzo 2018, quando la Scozia vince a Roma per 29 a 27 nonostante un match giocato in maniera gagliarda dagli azzurri, il 18 novembre 2017 quando dei Pumas tutt’altro che irresistibili rigirano una partita messa male e vincono a Firenze per 15 a 31 e infine con la sconfitta patita un anno fa a Padova contro l’Australia per 26 a 7. Tutte gare che oltre al risultato sono sgusciate via dalle mani degli azzurri nonostante di fronte a noi ci fossero avversari a tutti gli effetti sottotono.

Cosa ci lascia il signor Conor da Limerick.

Sviscerare tre anni di attività internazionale non è esercizio da fare di pancia. Il nostro rugby è strozzato da una moltitudine di problemi che non possono rientrare nella job description di un commissario tecnico.

Proprio su questo aspetto si è inceppata la gestione di O’Shea. Le sue competenze manageriali sono universalmente riconosciute, ma la domanda sorge spontanea: la nazionale maggiore ha bisogno di un Messia o di un uomo di campo capace di portare a casa le brutte, sporche e sospirate vittorie?

Il merito di aver compattato un movimento di alto livello frammentato è tutto suo. Le franchigie Zebre e Benetton si sono allineate ed hanno iniziato a produrre numericamente più giocatori per la nazionale. Dunque la casella “profondità della rosa” segna un plus rispetto al passato.

O’Shea si è distinto anche per una conduzione tecnica che privilegiava l’analisi delle potenzialità degli atleti senza svilirne gli aspetti umani. Un leader calmo che è stato apprezzato dai giocatori stessi, a conferma che la sua vision forse troverà compimento un po’ più avanti, esattamente come è successo a John Kirwan.

Il coach irlandese al contempo non è riuscito a diminuire la dipendenza dagli influenti senatori azzurri. Premetto che considero il rugby come lo sport più meritocratico del pianeta, ergo chi è più forte gioca. Sia che abbia 40 anni sia che ne abbia 20. Questo aspetto però non vieta di conferire responsabilità in alcuni ruoli chiave come il numero 8 e il numero 2 dove Parisse e Ghiraldini, giocatori dalla carriera stellare, avrebbero potuto quantomeno essere messi un po’ più in discussione per velocizzare un cambio di pelle che fisiologicamente doveva già essere in atto dall’inizio del suo operato.

In più aggiungo che la comunicazione verso l’esterno sia stata un elemento destabilizzante, affrontata con eccessi di ottimismo, dunque un aspetto negativo. E’ palese che a forza di commentare le sconfitte si corre il rischio di essere retorici, ma è altrettanto vero che il rugby italiano accende i riflettori solo per la nazionale. Le parole quindi vanno calibrate e richiedono coerenza con ciò che si produce in campo.

Quando O’Shea dopo un 29 a 0 patito in Scozia ci raccontava che “Si devono far scelte dolorose, non piaceranno. L’ego dev’essere tenuto in tasca”  avrebbe poi dovuto dar vita ad una rivoluzione tecnica che in fin dei conti non si è mai vista. “L’obiettivo è passare la poule e accedere ai quarti” prima di prendere il volo per il Giappone non è stato un proclama credibile se comparato con l’effettivo valore della squadra. Così come lanciarsi nell’ottimistico “Vogliamo essere la migliore nazionale della storia” che si scontrava con la realtà di un contesto internazionale mai così competitivo come quello dell’ultimo quadriennio.

Gli sviluppi

O’Shea è già il passato. L’unico tecnico che sicuramente arriverà in Italia è Franco Smith. Ingaggiato per fare l’allenatore dell’attacco, in questo momento potrebbe avere le carte in regola per diventare senza grossi problemi il responsabile tecnico assoluto. Il curriculum parla chiaro, con il Benetton Treviso in sei anni da head coach ha gettato le basi di una squadra capace di tenere testa alle migliori formazioni d’ Europa. E’ stato assistente di Coetzee con gli Springboks e ha costruito la sua carriera di allenatore intorno al franchise dei Cheetahs, prima in Super Rugby, poi in Pro 14. Gode di rispetto internazionale, conosce bene il nostro paese, le dinamiche del rugby italico e parla la nostra lingua. Quali contro indicazioni potrebbero mai esserci nel dargli le chiavi della squadra nazionale? Nessuna. Anzi, potrebbe rappresentare il miglior compromesso fra qualità e prezzo. Ad oggi infatti è più semplice integrare uno specialista di settore che trovare un head coach capace di rientrare nei parametri della FIR. Il nome di Vern Cotter, circolato di recente a mezzo stampa, costa a Montpellier circa un milione di euro all’anno. Non sappiamo quanto budget ci sia in federazione per il prossimo CT azzurro, ma ad occhio e croce con quella cifra ci si può costruire uno staff intero. Inoltre il condottiero neozelandese è conosciuto per i metodi poco inclini al compromesso. Non esattamente un requisito che si sposa con la nostra realtà sportiva.

Una suggestione (più personale che realistica) potrebbe essere quella di seguire le orme di Michael Cheika. Anche lui con un passato in Italia sia da giocatore che da allenatore. Con gli Wallabies e’ uscito di scena sbattendo la porta in faccia ai vertici della federazione. Potrebbe riscattarsi in Italia dove le pressioni dei media sono inferiori, come inferiori sono le problematiche nel tenere a bada le teste calde della squadra che in Australia, fra personaggi come Quade Cooper, Kurtley Beale, Israel Folau, James O’Connor, non sono mai mancate. Le probabilità di vederlo in azione nel Bel paese però sono poche. Anzi, sembra che i contatti fra le parti in passato abbiano portato ad un nulla di fatto e oggi le opzioni in mano al tecnico di origini libanesi portino diritto verso la Francia.

Ad ogni modo il nome del coach diventa  un problema secondario se ad esso non viene attribuito un ruolo specifico. Sperimentata la figura del Director of Rugby prestato alle attività di campo, forse è arrivato il momento di tornare a dotarsi di un uomo che possa impostare un progetto tecnico finalizzato esclusivamente a rendere l’Italia una nazionale più vincente sul rettangolo di gioco. Se il settore di formazione e sviluppo presenta delle falle, non può essere un allenatore, magari straniero, a salvare la baracca e i burattini di tutto il nostro movimento dal minirugby alle franchigie.