Primo (Tr)attore

L'epopea in 7 atti di CJ Stander sul palcoscenico del rugby

Come va la tua ferita?
Lei ci ha insegnato a ignorare il dolore, no?
– E funziona?
– Non proprio, non se la prenda a male
Rambo 3

Scena prima

Christiaan Johan Stander ha 14 anni. Gioca a rugby da 5: è cresciuto a George, la seconda città più importante della regione del Capo occidentale, in Sudafrica. Da quando ha iniziato, alla Blanco Primary School (che deve il nome ad un eccentrico nobiltizio coloniale inglese che di cognome faceva White e che insistette per chiamare con la versione spagnola del suo cognome una parte della città che aveva contribuito a far crescere), gli allenatori lo hanno sempre fatto giocare mediano di apertura, per il semplice fatto che era il ragazzino nettamente più dotato che avevano a disposizione.

Nel frattempo, però, sono sopraggiunte le prime avvisaglie di pubertà e alla Oakdale, la sua high school, hanno pensato di parlargli.

“CJ – gli dicono quelli – secondo noi hai il talento per diventare una terza linea con i fiocchi.”

Quello non batte ciglio, e si presta.

Bella scelta.

“La prima impressione conta e quello che ho visto io è un ragazzo con una gigantesca passione per il gioco e per la sua squadra. CJ ha sempre avuto la voglia di imparare e di vivere il proprio sogno fra le quattro linee del campo da gioco” ha detto il suo coach della Oakdale, Malan Du Plessis.

“Era un giocatore di qualità, che si distingueva per i propri valori. Un gran leader: era perfino rappresentante d’istituto.”


 Sapevate che Ronan O’Gara parla come se avesse una caramella in bocca?

Scena seconda

Il giovane Stander è uno che conquista il favore di tutti coloro sotto cui passa. È capitano della sua rappresentativa giovanile, i South Western District, poi delle South Africa Schools, una selezione nazionale a livello giovanile. Sarà quindi capitano della nazionale under 20 terza ai Junior World Championship del 2010.

Il salto di qualità che non arriva è quello decisivo, però: CJ Stander non riesce a farsi largo tra le fila dei Bulls del Super Rugby. A inizio 2012 gioca tantissimo, è una delle prime scelte in terza linea grazie agli infortuni di alcuni giocatori chiave come Dewaldt Potgieter, ma quando i veterani tornano a disposizione lo staff non dimostra di credere in lui, e lo rimette prima in panchina e poi lo relega addirittura in tribuna.

Il colmo arriva quando i tecnici federali sudafricani arrivano a fargli una proposta che, a rivederla oggi, fa davvero sorridere: ascolta, sei troppo piccolo fisicamente per ambire ad essere una terza linea internazionale per il Sudafrica. Pensiamo che dovresti considerare di diventare un tallonatore.

È l’offerta che lo convince definitivamente a fare le valigie: a chiamare è il Munster, uno dei club più forti d’Europa.


CJ è cambiato molto dalla prima volta in campo, un atleta completamente diverso

Scena terza

Novembre 2012, Stander è appena arrivato in Irlanda. Come da tradizione, il Munster esce fuori per il famigerato e temibile tour dei 12 pub a Cork. È una sorta di eptathlon dei bar: si girano dodici diversi locali della città, chi si ferma è perduto.

Stander conosce a malapena i suoi compagni, ma soprattutto parla un inglese terrificante, lui cresciuto parlando solo afrikaans. A un certo punto mentre quelli stanno facendo baldoria al piano superiore di uno dei pub, esce alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Quando torna il buttafuori non ne vuole sapere: col cavolo che ti faccio entrare, col cavolo che giochi nel Munster, a malapena parli inglese.

Morale della favola: Stander si salva da una notte all’addiaccio ricordandosi miracolosamente di aver visto che vicino a casa di uno dei suoi nuovi compagni di squadra, quello che lo aveva accompagnato in macchina, c’è un allevamento di cani guida, riesce a dirlo a un taxi e a farsi portare a casa di Barry O’Mahony.



Quello che non sempre si è visto di Stander è quanto sia un leader di tutti gli spogliatoi dei quali ha fatto parte. In campo è una vera e propria macchina di incoraggiamento nei confronti dei compagni

Scena quarta

Il primo mese di vita a Munster è difficile. Lontano dalla famiglia, dagli amici e dal proprio ambiente, CJ Stander non ha neanche lo sfogo del campo: continua ad allenarsi, ma non gioca.

Si aggira per gli spogliatoi e la palestra con il muso lungo, frustrato.

Ogni volta che lo incrocia, il vecchio saggio Paul O’Connell mette su la sua migliore faccia zen e gli fa: “Keep the faith, kid. Keep the faith“.

Probabilmente il futuro allenatore degli avanti della nazionale irlandese ci aveva visto lungo nelle doti del giovane sudafricano, che sarebbe poi entrato a far parte della successiva generazione di leader della squadra di casa al Thomond Park di Limerick.

Che sia stato effettivamente intuito, o solo benevolenza, quelle parole sono servite.



Mi fanno impazzire queste foto che sembrano raccontare una storia, che poi chissà se c’è, quella storia

Scena quinta

A Chicago lo stadio è pieno di irlandesi, figli di irlandesi, nipoti e pronipoti di irlandesi. Tutti sventolano il trifoglio per una squadra in formissima, che sa che potrebbe essere giunto il momento di fare il colpaccio: battere gli All Blacks per la prima volta nella storia.

Dal 1905 gli irish hanno collezionato solo 111 anni di sconfitte. Fino a quel momento, quel 5 novembre 2016.

È il sedicesimo minuto, l’Irlanda guida 10-5 e i neozelandesi sono in 14 per un giallo a Joe Moody. La squadra tambureggia nei 22 metri avversari, Rob Kearney viene fermato a un passo dalla linea. Sul pallone arriva CJ Stander, che raccoglie il pallone dalla base e si getta verso la linea.

Lo bloccano in due. Due dei giocatori più battaglieri e fisici della squadra migliore del mondo gli si gettano addosso con tutte le loro energie, ma Stander è semplicemente più forte: fermato, stende le gambe come fossero pistoni e riesce ad andare oltre la linea. Un gesto a suo modo tecnico, esplosivo, devastante.


Questa azione ha fatto capire al mondo che questo era uno forte, davvero forte. CJ Stander è stato protagonista di una stagione ovale, con il club e con la nazionale, entrambe trovate per strada e non per nascita.

Scena sesta

Nel 2018 l’Irlanda ha il suo ultimo grande acuto sotto l’egida di Joe Schmidt.

Al Sei Nazioni conquista le prime quattro gare: a Parigi con il drop da casa sua di Johnny Sexton, poi passeggiando in casa contro l’Italia, quindi liberando il cavallo Stockdale contro il Galles e la Scozia.

Si arriva alla resa dei conti a Twickenham, contro l’Inghilterra. Nel 2017 l’Irlanda ha rovinato la festa inglese, battendo gli albionici a Dublino all’ultima giornata, impedendo il Grande Slam già pregustato da Owen Farrell e compagnia, che ora si vogliono vendicare.

L’Irlanda glielo impedisce giocando un primo tempo quasi perfetto, con la spinta di San Patrizio.

Al ventiquattresimo uno dei classici lanci del gioco micidiali di Schmdit, disegnato a tavolino ed eseguito alla perfezioni, manda Bundee Aki oltre la difesa. Quello fissa l’estremo e cede a CJ Stander con una quindicina di metri che lo separano dalla linea di meta.

Al numero 8 si appendono tipo zainetto Elliot Daly e James Haskell, che insieme un paio di quintali li fanno. Niente, non ce n’è, si porta anche loro alla base del palo. Meta, Irlanda in festa. E non solo per San Patrizio.



A giugno CJ Stander avrà appena 31 anni. Il suo ritiro ha echi di quello di Sam Warburton: entrambi lasciano il gioco presto, all’apice della propria carriera; entrambi hanno vissuto il proprio rugby a scapito della propria incolumità fisica

Epilogo (?)

L’Irlanda bastona l’Inghilterra nell’ultima giornata del Sei Nazioni 2021. Inaspettatamente.

CJ Stander è fra i migliori, come sempre un ball carrier esplosivo e volitivo. A un certo punto riesce a rimbalzare senza andare a terra in un contatto che vede lui andare a schiantarsi contro Tom Curry, Billy Vunipola e Ellis Genge.

Quando la partita finisce viene inquadrato in lacrime: è stata la sua ultima a Dublino, con la maglia della nazionale che lo ha adottato, che ne ha fatto un Lion, di cui è stato un leader assoluto e che ha rappresentato con orgoglio.

Mezz’ora dopo la fine della partita sul prato dell’Aviva Stadium è rimasto solo lui e un fotografo, che continua a staccare mentre lui parla con la moglie in videochiamata: “Volevi portarti qua fuori con me un’ultima volta”.

Quando rientra nello spogliatoio, i compagni lo stanno aspettando, mezzi nudi, ancora sudati, festosi. E quando entra intonano tutti in coro Simply the best: Tina Turner cantata a squarciagola da ventitré irlandesi gasati, che festa.

(Ma non è finita qui: c’è una finale di Pro14 da giocare, un ottavo di finale europeo contro Tolosa e una maglia dei Lions da conquistare)



Ci vediamo presto