L’albero genealogico di Cheslin Kolbe

C'è sempre stato spazio, nel Sudafrica dei grandi e grossi, per giocatori elettrici, piccoli e veloci

Cheslin Kolbe è alto un metro e settantuno e pesa meno di 80 chili. Tolto il collega Faf de Klerk, in Nuova Zelanda-Sudafrica concedeva almeno dieci chili ad ogni altro giocatore sul terreno di gioco. E non sempre gli va così bene.

Ma Cheslin Kolbe, in questa stagione un vero e proprio Re Mida capace di trasformare in oro ogni occasione che gli capiti a tiro, ha imparato da un pezzo ad avere a che fare con ragazzoni ben più grossi di lui. Sono gli altri che non sono ancora riusciti a prendere le misure a questo 25enne cresciuto a Kraaifontein, un sobborgo residenziale di Cape Town.

L’ultimo a poterlo testimoniare è stato il povero Owen Franks, finito con il naso a grattare l’erba dopo aver cercato di acchiappare Kolbe, che contrattaccava in mezzo al campo. Quando il pilone, pensando di averlo preso, si è sbilanciato per assestare il placcaggio, il numero 14 degli Springboks semplicemente non era più lì.

Il rugby moderno non guarda facilmente a giocatori della stazza di Kolbe, soprattutto in Sudafrica, dove prevale ancora una immarcescibile cultura dell’energumeno. Nonostante il gusto per un rugby da bisonti, però, gli Springboks hanno sempre trovato posto nella loro storia più o meno recente per dare spazio a giocatori rapidi, elettrici e dai fisici meno statuari.

Cheslin Kolbe è infatti solamente l’ultimo, definitivo prodotto di una stirpe di Springboks modello tascabile, che con alterne fortune hanno calcato i campi internazionali con la maglia verde e gialla: Brent Russell, Breyton Paulse, Gio Aplon.


Il giocatore più divertente del 2019

Brent Russell

Soprannominato The Pocket Rocket, Russell è stato un giocatore di culto dei primi anni Duemila, giocando 23 volte con la nazionale sudafricana e attraversando i continenti per giocare con le maglie di Sharks, Stormers, Saracens e Clermont.

La sua è stata una carriera piuttosto breve: è emerso relativamente tardi, intorno ai 23 anni, ed è sparito dai radar a 33, finendo a fare il consulente finanziario ben lontano da quel rugby che gli aveva dimostrato un affetto limitato.

Già, perché nonostante un bagaglio di talento di primo livello, la carriera sudafricana di Brent Russell non si può dire sia finita per andare come il giocatore avrebbe meritato: di quei 23 caps, solo 7 sarebbero arrivati partendo da titolare.

Dotato di una grande velocità, ma anche di un ottimo equilibrio e di una notevole forza nelle gambe, era sorprendentemente difficile metterlo a terra. La sua visione di gioco e le doti tecniche lo rendevano inoltre un giocatore capace di occupare qualsiasi posizione sulla linea dei trequarti: con gli Sharks, suo primo club, giocava solitamente da estremo o da apertura, mentre in nazionale veniva più spesso selezionato come ala.

In principio fu il Sevens: 46 presenze e 47 mete, 118 trasformazioni (a testimonianza di un piede sensibile) e il titolo di miglior giocatore delle World Series 2002. Un biglietto da visita notevole, accumulato con la nazionale sudafricana di rugby a sette, variante nella quale ebbe modo di affinare le capacità atletiche e tecniche messe in mostra anche nel XV. Proprio quel biglietto da visita gli valse le attenzioni dello staff tecnico sudafricano, guidato da Rudolf Straeuli.

Dodici presenze fra il 2002 e il 2003 non bastano per convincere il selezionatore degli Springboks a portarlo in Australia per la Rugby World Cup, torneo al quale non sarebbe mai riuscito a partecipare. Nonostante Jake White, successore di Straeuli alla guida della nazionale, decida di dargli un po’ di fiducia in più nei due anni successivi, dal 2006 viene sostanzialmente emarginato dalle selezioni, vista la crescita di giocatori come Bryan Habana e JP Pietersen.

Forse proprio la sua grande versatilità gli è stata fatale. Russell rappresentava infatti quel tipo di giocatore utile per vestire la maglia numero 22: un eclettico, capace di cambiare la partita entrando in campo nel finale, in qualsiasi ruolo giocasse. E’ stato uno dei primi super-sostituti della storia del gioco.

La sua carriera europea non è stata delle migliori: nel 2007 decide di lasciare il Sudafrica, proprio a causa della poca fiducia nei suoi confronti. Se ne va ai Saracens, dove però si rompe la clavicola in avvio di stagione e salta la prima parte dell’anno. Nonostante 5 mete in 10 partite di Premiership, al termine della stagione se ne andrà in Francia, a Clermont. Con i gialloblu avrà maggiore successo, ma rimarrà sempre quel giocatore utilizzato per scombinare le carte in tavola partendo dalla panchina.

“Sono molto grato per i miei 23 caps con il Sudafrica, ma se potessi tornare indietro nel tempo ci sono alcune cose che farei diversamente – ha detto Pocket Rocket in un’intervista del 2016 – Probabilmente avrei dovuto concentrarmi su uno specifico ruolo nel mio club. Preferivo giocare estremo, non mi piaceva essere lasciato all’ala. Che mi piacesse o meno, l’etichette di “super-sub”, super-sostituto, mi è rimasta attaccata per tutta la mia carriera e, ad essere onesti, non è nemmeno così male. Almeno quando giocavo la gente mi guardava e diceva: ‘quando è entrato ha fatto la differenza’.”

“Sì, mi sarebbe piaciuto giocare titolare in più Test, e sono stato molto deluso di non essere stato selezionato per la Rugby World Cup 2007, ma così è la vita. Credo di aver fatto tutto quello che potevo in carriera, e ho lasciato il gioco con pochi rimpianti.”

Paradossalmente, forse oggi Brent Russell avrebbe qualche chance in più: il rugby della metà degli Anni Zero privilegiava ancor più gli autoscontri rispetto a quello di oggi, dove si vanno riscoprendo le qualità di giocatori come Pocket Rocket, capace di inventare una meta da un qualsiasi pallone vagante.



Russell è stato uno dei pochi giocatori ad emergere dalla piccola squadra dei Pumas, della provincia di Mpumalanga, nome xhosa di quello che era l’Eastern Traansval

Breyton Paulse

Ellis Park di Johannesburg, TriNations 2002. Sullo stesso campo da gioco ci sono Brent Russell, che è entrato guarda un po’ dalla panchina, al posto di André Pretorius (meglio noto per essere l’ultimo piazzatore ad utilizzare il monticino di sabbia anziché il tee per sorreggere l’ovale), e Breyton Paulse, che si è esibito già due volte nel suo tipo salto mortale.

Già, perché questo era il suo modo di celebrare le sue marcature internazionali, dimostrando tutta l’esplosività, l’atletismo e l’elasticità che contraddistinguevano un giocatore dalle grandissime doti offensive, forse indisciplinato tatticamente e sicuramente rivedibile in fase difensiva, ma che certo ha fatto divertire gli spettatori degli Sharks. Soprattutto in Currie Cup, dove ha segnato 64 mete in 80 presenze.

Con la nazionale ha debuttato nel 1999 contro l’Italia, segnando una tripletta e risultando praticamente intoccabile agli Azzurri. Ha giocato più di 60 volte con il Sudafrica, in un periodo come quello di inizio millennio in cui gli Springboks erano la terza forza del TriNations, con una squadra dal tasso tecnico non eccellente ma che giocava un rugby molto diverso rispetto alle più nobili Australia e Nuova Zelanda.

Paulse era uno dei terminali offensivi di quella selezione, che giocava un rugby di contropiede: incominciava a sperimentare le prime versioni di blitz defence, difendendo quindi con i giocatori esterni che salivano più rapidamente di quelli interni. Una mezza rivoluzione, che portò il Sudafrica a segnare un sacco di mete di intercetto fra il 2004 e il 2006, e su cui banchettarono giocatori come Jean de Villiers, inizialmente impiegato all’ala dagli Springboks, Bryan Habana e lo stesso Breyton Paulse, che però poteva dare il meglio di sé quando servito sull’out di destra, sua residenza naturale.

Oggi, Paulse commenta le partite degli Springboks per SuperSports, l’emittente che trasmette le partite della nazionale in Sudafrica, insieme ad altri ex internazionali come Kobus Wiese e Victor Matfield. Di Cheslin Kolbe ha avuto modo di dire, prima della sua inclusione nel giro della nazionale: “E’ piccolo, ma è duro e dinamico. Non penso che ci si debba preoccupare della sua difesa perché il ragazzo è una bomba. La gente spesso non realizza il fatto che placcare i più piccoli sia più difficile. Sono riuscito a sfuggire a un sacco di placcaggi perché ero un po’ più piccolo.”



Per la premiata serie ‘Video molto brutti di YouTube’ ecco Breyton Paulse Top #18 Facts: la pagina Wikipedia in inglese sul giocatore suddivisa in 18 fatti. Come sfondo, Breyton Paulse in ferie al Cinquale

Gio Aplon

Aplon è stato un Cheslin Kolbe che non ce l’ha fatta. Oggi ha 36 anni e sta chiudendo la sua carriera giocando in Giappone, nei Toyota Verblitz. Un metro e 75 per meno di ottanta chili di peso, ha fatto parte del gruppo degli Springboks che preparava gli scorsi test di novembre, richiamato da Rassie Erasmus dopo 7 anni dall’ultimo dei suoi 17 caps al fine di avere un po’ di esperienza in più in gruppo, dove a contendersi le maglie da titolare c’erano tanti giovani talentuosi ma limitati dal punto di vista della maturità.

“Abbiamo così un ragazzo esperto che ha giocato in Francia ed ha un gran piede sinistro – ha dichiarato nella circostanza il plenipotenziario degli Springboks – Sta giocando un ottimo rugby in questo momento e penso possa essere d’aiuto. So che Aphiwe e S’bu (Dyantyi e Nkosi, le due ali titolari) stanno facendo bene, ma non ci sono molti veterani nei dintorni che possano dar loro una mano nel triangolo allargato.”

“Potrei sbagliarmi, ma penso che sia una buona aggiunta in termini di leadership, per scaldare le spalle a qualcuno dei ragazzi più giovani.”

Nonostante le parole spese al momento della convocazione, però, Aplon non è mai sceso in campo nella finestra autunnale del 2018, e le sue speranze di un ultimo tentativo di rifare propria la maglia degli Springboks è definitivamente naufragato.

Proprio come Kolbe, Aplon veste sì almeno due taglie in meno dei compagni di squadra, ma compensa con eccezionali doti di velocità, accelerazione e uno contro uno in attacco, senza risultare un problema dal punto di vista difensivo. La sua carriera è incominciata davvero nel 2006, quando è approdato al Super Rugby con gli Stormers, già a 24 anni, sottovalutato proprio a causa delle sue dimensioni fisiche. Una ulteriore impennata nel gradimento dopo aver vinto le Sevens World Series nel 2009 con il Sudafrica gli è valsa la convocazione con la nazionale a XV, con cui ha esordito l’anno successivo.

Alla sua seconda presenza in nazionale si trova a giocare titolare contro la Francia, realizzando due mete nel sonoro 42-17 inflitto dagli Springboks ai galletti nel giugno del 2010, risultando il man of the match di quell’incontro. Sarà una vetta che non raggiungerà mai più: sarà titolare della nazionale ad intermittenza fino alla Rugby World Cup 2011, dove però disputerà solo la partita contro la Namibia, mettendo a segno un’altra doppietta. Giocherà solamente un’altra partita in nazionale, il 24 giugno 2012 contro l’Inghilterra, poi solo Currie Cup e Super Rugby. Almeno fino al 2015, quando le sirene di Grenoble lo portano in Europa per tre stagioni, poi il Giappone, che coincide un po’ con l’oblio.

Lo scorso novembre Aplon non poteva credere di essere tornato nel gruppo degli Springboks, grazie principalmente all’allenatore che l’ha scoperto. Erasmus era l’allenatore di Western Province che portò il non più giovanissimo Aplon in Currie Cup, lanciandolo nel rugby dei grandi (e grossi). Nonostante l’entusiasmo, però, ha mantenuto i piedi per terra e, in un’intervista dello scorso dicembre , ha fatto una lucida analisi a proposito dei piccoli del rugby internazionale, come Cheslin Kolbe.

“Vedo i progressi che ha fatto e l’impatto che ha avuto sugli Springboks e penso di poter fare lo stesso. Lui è un giocatore migliore di me, e non di poco. Io sono probabilmente l’iPhone 5 e lui è l’iPhone 6, è la versione più aggiornata. A 23 anni ha lasciato la sua comfort zone per andare a giocare in Europa e ora è uno Springbok. Ogni volta che lo vedo in azione sono felice e ora sono ancora più felice perché tutti possono vederlo giocare a livello internazionale. Kolbe e McKenzie sono la prova che c’è posto per i piccoli a livello di test matches. Io sono più vecchio e in tanti dicono che ormai il mio momento è passato, ma se dovessi giocare di nuovo per gli Springboks voglio rafforzare l’idea che i piccoli giocatori possono brillare a questo livello.”

Peccato che Rassie Erasmus non gliene abbia data la possibilità.



Aplon si è consolato capitanando i Toyota Verblitz alla conquista del loro primo trofeo nella storia, la Top League Cup. I Verblitz sono allenati da Jake White, che ha vinto la Rugby World Cup 2007 con il Sudafrica

 

Ecco il motivo per il quale è facile fare il tifo per i giocatori piccoli: sono semplicemente il massimo del divertimento da guardare. Rispetto a Kolbe, che è un giocatore dalla tremenda potenza esplosiva, una sorta di 4×4 compatto, Aplon ha una compostezza e un’eleganza nei gesti tecnici e atletici che lo rendono esteticamente leggero, ancora più bello da guardare, inafferrabile