Giù il cappello a Di Giandomenico

A novembre 2018 Andrea Di Giandomenico era a Prato per il test match fra Italia e Sudafrica. Fu l’occasione per una breve intervista realizzata per capire cosa aspettarsi alla vigilia di una partita storica (poi vinta) e per analizzare il buon momento del rugby femminile. A distanza di 14 mesi il coach aquilano ha condotto le ragazze di Italrugby al secondo posto del Sei Nazioni femminile 2019 ed è stato nominato “Best Women’s World Coach 2019” . 

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Il percorso sportivo della nazionale femminile è sotto gli occhi di tutti. Qual’è la ricetta dei recenti risultati ?
L’obiettivo del nostro lavoro nell’arco di questi anni è stato quello di concentrarsi sull’intensità e l’efficacia della prestazione. Il messaggio è semplice: comprendere cosa serve per adeguarsi allo standard dell’alto livello e tramite il lavoro quotidiano cercare di alzare sempre l’asticella. Non abbiamo mai messo fretta alle ragazze, mai fatto drammi per le sconfitte e la risposta in termini di attitudine è stata egregia.

Una domanda che viene spesso formulata agli addetti ai lavori del rugby femminile è “perchè le donne vincono e gli uomini no? ” . Quali sono dunque le differenze fra i due contesti? Non è corretto paragonare i due movimenti considerandoli uguali in ogni aspetto. Intanto il rugby femminile è una disciplina molto più giovane rispetto al rugby maschile, inoltre, nonostante rimanga una distanza considerevole sul piano strutturale ed organizzativo fra noi e le federazioni più celebri, possiamo affermare che come ‘movimento Italia’ siamo partiti alla pari con le altre o comunque molto vicini alle altre. Il paragone quindi non regge in assoluto perchè il rugby maschile vive uno sviluppo tecnico e commerciale che è molto più strutturato e distante dal nostro contesto, ancora molto vincolato al dilettantismo seppur con approccio professionale. In questa differenza però noi siamo stati capaci come movimento femminile di creare una identità molto forte che si basa sulle nostre credenze e sulla capacità di costruire una vera e propria scuola italiana. Una scuola che continua a lavorare per la crescita individuale delle ragazze e di conseguenza di tutto il movimento a livello nazionale.

Quali sono oggi gli ostacoli che dovete affrontare per sviluppare uno sport che a tutti gli effetti non è professionistico?
Più che ostacoli sono sfide. Le atlete sono molto professionali anche se non supportate da una vera e propria copertura economica. Dobbiamo quindi tenere in considerazione un fattore importante: le ragazze non vivono di rugby perchè studiano o lavorano, ragione per cui ogni giorno fanno sforzi immani per coniugare la propria vita con lo status di atlete internazionali. La sfida dunque viene da più lontano ed è quella di tutta la base dei club che lavorano per garantire una proposta adeguata, per reclutare nuove giocatrici, in poche parole per far vivere il rugby femminile.

Quali sono gli ostacoli culturali che il rugby femminile incontra ogni giorno?
I nostri sono problemi che affrontiamo come cittadini ancor prima che come sportivi. Il rugby femminile, dalle metodologie di allenamento, alle tecniche di gioco, fino ai valori in cui crediamo è lo stesso del maschile. Desta ancora molta sorpresa parlare di ragazze che giocano a rugby, ma la nostra è una realtà collettiva solida e cosmopolita. Non vogliamo portare avanti battaglie sociali, ma semplicemente godere dello stesso rispetto che hanno tutti gli sportivi che fanno sacrifici e lavorano duro per un obiettivo.

Dopo 10 anni l’avventura al timone della nazionale femminile continua?

Ogni anno si rinnova l’entusiasmo che riescono a trasmettermi le ragazze non appena arriva il momento dei raduni. Finchè gli stimoli ci sono, ho tutto il desiderio di continuare e mettermi in gioco per migliorarmi come tecnico.