Sospensione dei campionati, valori del rugby e professionismo, ne parliamo con Filippo Frati

Credit foto - Antonio Cinotti

In questa fase interlocutoria del rugby italiano abbiamo scambiato qualche parola con Filippo Frati, attuale Direttore Tecnico del Cus Milano dopo le significative esperienze con Noceto, i Crociati, Cavalieri Prato, Rovigo e Viadana. Oggi guida la squadra meneghina che prima dello stop forzato dalle competizioni era in testa al girone 1 di serie B, con 12 vittorie in 12 partite, 592 punti fatti 97 subiti.

Ciao Pippo, venerdì 27 marzo è uscita la comunicazione della Federazione Italiana Rugby che allunga definitivamente le misure di contenimento del Covid-19. Stagione ufficialmente finita e congelamento dei campionati. Quando si ripartirà tutto riprenderà da dove è stato lasciato. Come valuti questo lockdown?

Al momento non me la sento di giudicare la decisione della FIR come una scelta coraggiosa, anzi, la trovo forse giusta ma sicuramente superficiale. Mi chiedo: cosa c’è di coraggioso nel seguire il mainstream, nello scegliere quello che avrebbero scelto tutti senza proporre nessun tipo di soluzione? La giudicherò come coraggiosa e sicuramente giustanel momento in cui arriveranno proposte concrete a tutela degli affiliati, per fare fronte alle difficoltà, soprattutto economiche, che incontreranno i club, tutti i club, nel futuro più prossimo. Attendo quindi con grande speranza l’esito del Consiglio Federale del 1°aprile. Va da sé che ad oggi è impensabile prevedere un ritorno alle attività, che siano queste agonistiche e non, penso però che avremmo potuto fare come gli altri sport, estendere la sospensione e prendere una decisione definitiva in base all’evolversi della situazione, magari cercando una soluzione coinvolgendo i club direttamente interessati.

Credi che un organo di coordinamento come ad esempio una lega di club potrebbe essere strategico in una situazione emergenziale?

Pallavolo, basket e calcio hanno una lega che tutela club e tesserati, che dialoga e si confronta con la federazione, il rugby no. E’ questo il punto. E’ questo a mio parere l’unico vero motivo per cui la FIR ha deciso in anticipo rispetto alle altre federazioni, non perchè siamo più virtuosi, non perchè siamo più coraggiosi, non perchè vogliamo tutelare i nostri club e i nostri tesserati. Anzi. Non capisco perchè in tanti si debbano scandalizzare se persone coinvolte in prima persona e oggettivamente penalizzate più di altre da questa scelta, esprimano la loro opinione al riguardo.

La galassia dei social network ha manifestato sostanziale approvazione, bollando il provvedimento come una chiara espressione di quel complesso di valori che rende il rugby superiore ad altri sport. Sei d’accordo con questa enfatizzazione?

Io trovo legittimo che chi ha costruito una stagione sulla programmazione, sugli investimenti, sui progetti, oggi pretenda una gestione del blocco quantomeno più prudente. E’ una voce molto più legittima rispetto a tutti i commenti che quotidianamente inondano i social, fatti da persone che ancora si riempiono la bocca con la parola “valori del rugby”, che poi magari sono le stesse che di questi tempi violano le disposizioni pensando che una piccola infrazione individuale delle regole non abbia ripercussioni sulla collettività. Perché se i commenti di chi sbandiera e si fa paladino dei valori del rugby arrivano dalle stesse persone che: – Se non giochi è colpa di quell’incompetente dell’allenatore che non capisce un tubo – Quando c’è fitness fai una ripetizione o un metro in meno – Vai al campo a vedere una partita e lasci il bicchiere di birra vuoto sui gradoni della tribuna o peggio ancora lo butti a terra – Fumi e getti i mozziconi di sigaretta a terra – Guidi e getti la lattina, il fazzoletto, il pacchetto di sigarette vuoto dal finestrino – Mio figlio gioca poco perché quell’incompetente dell’allenatore non capisce un tubo – L’Italia perde, andate tutti a lavorare!! Se i commenti arrivano da queste persone, allora sono commenti che hanno un valore pari a zero. Chi parla del “nostro sport”, deve avere l’onestà intellettuale di volare basso, con un po’ di umiltà che è un valore imprescindibile, non del rugby, ma del buon essere umano.

Non tutto il rugby italiano dalla parte degli addetti ai lavori ha accolto la decisione della FIR allo stesso modo. Che ne pensi?

Cerco di rispondere ponendo dei quesiti che mi sono fatto dopo il comunicato di  venerdì. Quanto è mio e quanto è tuo “il nostro sport”? Quanto è di un presidente come il Cav. Zambelli, giusto per fare un esempio, che ci mette la faccia e i soldi da più di 30 anni e quanto è tuo che vai a vedere una partita dell’Italia ogni due anni? Quanto è di un allenatore come Umberto Casellato, sempre per fare un altro esempio, che è da quando è nato che vive sui campi da rugby, che ha girato il mondo per aggiornarsi, che guarda 3 partite al giorno (stima al ribasso), che insegna rugby e quanto è tuo che, siccome tuo figlio ha iniziato a giocare da 4 anni, hai visto le Zebre o il Treviso dal vivo 6 volte? Che piaccia o meno, ci sono persone che hanno scelto il rugby come professione. Giocatori e allenatori soprattutto e qualche dirigente. Tralascio volutamente gli allenatori italiani sotto contratto con FIR, Zebre e Treviso, che sono a tutti gli effetti veri professionisti, oltre a questi però, in Italia ci sono allenatori come Guidi, Casellato, Montella, Marcato, Brunello, Costanzo e sicuramente dimentico qualcuno, professionisti seri, competenti e preparati che hanno investito su loro stessi, e che hanno come unica colpa quella di lavorare in Italia, perchè credetemi quando dico questo, potrebbero tranquillamente lavorare in uno staff di un qualsiasi club di Premiership, Top14, Pro14, Super Rugby, con tutte le tutele di questo mondo.

Una pandemia è una circostanza eccezionale. Dunque possiamo dire che la mancanza di una forma statutaria professionistica del nostro sport si senta oggi più che mai?

Direi di si. E prima di esprimere giudizi trancianti e sparare sentenze su chi esce dal coro, dobbiamo pensare anche a tutte quelle persone che ho citato. Pensare che oggi in Italia ci sono persone che con il rugby ci lavorano, che conoscono e rispettano i valori come e forse più di coloro che giudicano, ma che con questi valori non ci riempiono il frigorifero, non ci pagano la benzina, non ci comprano i libri e i vestiti per i figli. Tutti a gridare allo scandalo per i 600€ una tantum alle partite iva, bene, sono d’accordo, però perché in questo caso è lecito lamentarsi e nel caso del rugby no? Qualcuno vuole farmi credere che un lavoratore del rugby, che conosce più i doveri dei diritti, vale meno di un lavoratore che si è messo in proprio? Di un barista? Di un giornalista? Di un fotografo? “Prima di giudicare un uomo cammina per tre lune nei suoi mocassini”  Lo diceva un proverbio degli indiani d’America. Ricordiamocelo tutti quanti, soprattutto di questi tempi.