Il fascino discreto dell’esonero

Se c’è un tema su cui ragionevolmente il rugby poteva dare una lezione di signorilità al calcio, quello era il rapporto con gli allenatori.

La cultura degli sport di squadra che accomuna le due palle, la tonda e la bislunga, contempla l’esonero come risoluzione di tutti i mali. Che esso sia il primo passo di reazione ad un momento negativo o l’ultimo atto a seguito di un’analisi sul lungo periodo, poco importa: con il taglio della guida tecnica si acquieta l’ambiente, i media diventano più clementi, talvolta si riaccende lo spirito motivazionale della squadra.

D’altronde l’allenatore è un lavoro infausto. Come diceva Vujadin Boskov uno che di aforismi se ne intende, “i giocatori vincono, gli allenatori perdono”, che tradotto vuol dire molto semplicemente: gli atleti si prendono i meriti quando le cose vanno bene e il tecnico paga per tutti quando le cose vanno male. 

Non ci sono grandi vie di mezzo. Se la tua squadra non carbura e stenta a decollare per colpa di episodi inaspettati, se il materiale umano che hai disposizione è scarso, se il tuo staff ti rema contro, la colpa è tua che alleni. In ogni situazione di difficoltà deve essere l’head coach quello bravo a trovare le alchimie giuste per tenere in equilibrio il delicato castello di carte. Qualcuno la chiama chimica, altri si arrovellano le meningi a definirla leadership. Di fatto non importa come, è sempre meglio vincere.

L’esonero nel rugby, da fenomeno semi sconosciuto a consuetudine

Storicamente il rugby ha sempre trattato con profondo rispetto ogni figura verticistica del suo mondo: il capitano, l’allenatore, l’arbitro. Per questo e per molti altri motivi non abbiamo mai contato un numero alto di esoneri. Se prendiamo come riferimento il calcio dove l’esonero è pratica comune (dove molti club sono quotati in borsa e dove le squadre nazionali sulla base dei risultati nelle grandi kermesse muovono punti di PIL), possiamo annotare delle differenze piuttosto profonde.

Anche se, va detto, gli equilibri di cassa iniziano ad avere un certo peso pure nei palazzi della palla ovale, con conseguente innesco del meccanismo di verifica perpetua che pende su ogni squadra. Ecco che negli ultimi 5 anni sono saltate diverse panchine eccellenti. Vuoi per un motivo, vuoi per un altro, molti progetti tecnici sono finiti prima del termine naturale del contratto. A volte per volere della stanza dei bottoni, altre volte per volere del CT.

Solo a livello di squadre nazionali, Allister Coetzee è stato costretto a lasciare la guida dei Boks con un ruolino modesto di 11 vittorie in 25 test, Guy Noves reduce da alcuni risultati mediocri alla guida dei Blues è stato poi licenziato (con disonore) dalla FFR al secondo anno di mandato, Mario Ledesma accantonato più o meno volontariamente dai Pumas con un palmares di 22 sconfitte, 3 pareggi ed 8 vittorie. E poi c’è l’Inghilterra, con lo stesso Eddie Jones, rimosso e protagonista di un rapporto tumultuoso con i suoi collaboratori, tagliati e sostituiti con grande (e forse eccessiva) regolarità.

I club del rugby Pro in misura maggiore rispetto alle nazionali si stanno adeguando maggiormente alle dinamiche calcistiche. È notizia fresca quella di Sean Everitt, cacciato dalla guida degli Sharks di Durban dopo la umiliante sconfitta casalinga con il Cardiff in United Rugby Championship. Era in carica con la franchigia in vari ruoli dal 2008. Una storia non a lieto fine che però rimane ancora distante da quelle più comuni del pallone tondo. Un esempio per tutti? Il Watford. Dal 2008 al 2021, tra cacciati e richiamati, sono stati venti gli allenatori che si sono alternati sulla panchina dei calabroni, oggi di proprietà della famiglia Pozzo.

Tornando sul pianeta a noi più congeniale, quello ovale, appare chiaro che lo scenario internazionale si è fatto più feroce. In questo clima di rovente competizione anche le migliori nazionali possono perdere match inattesi contro le cosiddette ‘piccole’. Le federazioni da parte loro non possono permettersi di rimanere a lungo senza vittorie, tantomeno di perdere tifosi, così corrono ai ripari con il buon vecchio taglio della testa. Un taglio da intendere sportivamente parlando, of course.

Ha senso rimuovere l’allenatore in corso d’opera?

Premesso che chi paga pretende, e quindi chi ha il portafoglio dalla sua parte ha anche il potere di decidere le sorti di un sottoposto, sul tema non c’è una risposta esatta. Al massimo possono esserci delle opinioni individuali.

Lo staff di una squadra di rugby professionistica è molto numeroso nonché profondamente specializzato. Assomiglia più all’ambiente dei Miami Sharks allenati da Al Pacino in Any Given Sunday che non a quello di Arrigo Sacchi a USA 94, solitario in panca con il fido Gedeone Carmignani al suo fianco. Ragione per cui il coach di rugby va considerato alla stregua di un manager delle risorse umane, uno che non puoi epurare da un giorno ad un altro senza che i vari responsabili di settore vengano messi in discussione. In più c’è una pianificazione che richiede anni di lavoro per essere effettiva. Pochi sport di squadra necessitano di così tanto tempo per far progredire un progetto tecnico. La materia che trattano gli allenatori è intangibile, fa capo ad un mix di elementi tattici, psicologici e comunicativi, dunque richiede tempi lunghi per essere assimilata dai giocatori.

Va detto però che nei due casi recenti, quelli di Jones e Pivac, la dinamica è un po’ diversa. Qui più che di allenatori si parla di selezionatori. Cioè di figure che in prima battuta devono scegliere il meglio che offre un intero movimento. E già con questa premessa si arriva vicini al nocciolo della questione. 

Inghilterra e Galles sono due home union che catalizzano l’attenzione del grande pubblico e richiedono performance brillanti. Se la ragione per cui queste performance non arrivano è direttamente riconducibile, ad esempio, alle omissioni dei giocatori, allora la situazione si fa incandescente. In particolar modo Eddie Jones si è reso protagonista di alcune mise en place discutibili: l’insistenza ossessiva su Manu Tuilagi, il tentativo fallito di recuperare uno stato di forma decente per i fratelli Vunipola, l’ostracismo iniziale su Marcus Smith, quello attuale su Dombrandt, Simmonds e via dicendo.

Se il coach australiano esce di scena sorprendentemente con il 73% di vittorie (il più alto della storia inglese), 3 Six Nations, 1 Grand Slam, 1 Autumn Nations Cup, 1 finale di Coppa del Mondo, Wayne Pivac invece paga un 2022 orribile. Un anno in cui a Cardiff hanno vinto tutti, escluso Scozia e Argentina, compreso Italia e Georgia. È vero che nel 2021 ha conquistato il Sei Nazioni, ma dopo l’uscita di scena di Gatland nessuno è più riuscito a capire quale fosse la vera identità tecnica del Galles.

La risposta alla domanda iniziale quindi è soggettiva, ma al Mondiale mancano 10 mesi, meno di 10 partite e appare difficile pensare che un cambio in corsa risolverà tutti i problemi di Inghilterra e Galles.

Allenatori superstar, guru e comunicatori efficaci

Con la deposizione di Pivac e  soprattutto con la cacciata di Jones troviamo conferma di una tendenza un po’ bizzarra, quella degli allenatori travestiti da fuoriclasse. Anche in questo caso è il calcio ad aver segnato la strada, con il rugby in versione 2.0 che non ci ha messo molto ad accodarsi.

La capacità di incidere sui risultati da parte di un allenatore è quantomeno paritetica a quella dei giocatori e di tutto l’ambiente che li circonda. In poche parole, puoi esercitare un certo fascino narrativo, puoi avere una visione accettata e condivisa dalla tua squadra, ma poi alla fine conta sempre portare a casa quel maledetto punto in più. Elemento che tanti giornalisti sembrano scordarsi quando si sforzano ad etichettare con definizioni altisonanti un nuovo stile di gioco o una banale strategia di attacco.

In un circuito mediatico sempre alla ricerca di nuovi personaggi, gli allenatori che si travestono da filosofi sono in costante aumento. Non è il caso di scomodare i guru generazionali alla Franco Scoglio, alla Mourinho, alla Bielsa o alla Sarri. No, ancora queste vette non le tocchiamo. Ma è palese che proprio il caso di Eddie Jones sia emblematico di come un certo modo di fare il cosiddetto ‘teatrino’ abbia spesso soppiantato nella dialettica tra media e federazioni, i temi tecnici nudi e crudi.

Guardiola in dolce vita che educa il mondo al Tiki Taka, ma anche Galthiè imperscrutabile con i suoi vistosi occhiali futuristici, Cheika che segue la partita in elegante doppio petto. E poi Vern Cotter che catechizza Montpellier al costo di 1 milione di euro all’anno, Scott Robertson e la sua break dance di fine partita. Ormai gli allenatori iniziano ad avere tratti di riconoscibilità che intrigano enormemente, al punto da essere spesso un argomento di discussione tra i sostenitori o gli spettatori curiosi.

Jones è stato l’apripista. Artista della provocazione, narciso e iper loquace, alla resa dei conti è finito stritolato dalla propria vanità. La gestione della comunicazione infatti è un tema sempre più centrale tra i professionisti della panchina. In un contesto segnato dalla saturazione dei contenuti, chi sa offrire angolature bizzarre e virgolettati piccanti diventa automaticamente un uomo copertina. 

Jones per lunga parte della sua avventura inglese ha fatto parlare di sé più per motivi di forma che di sostanza. Ha occupato molti spazi dei tabloid, distogliendo l’attenzione sulle sue vere capacità. Eppure la lista di giocatori che gli sono riconoscenti (come quella dei detrattori) è molto lunga. A conferma che il signor Eddie ci sa fare, di rugby ne capisce, conosce le strategie migliori e sa gestire un gruppo in funzione dei risultati. 

Quando però i risultati hanno smesso di arrivare, la sua capacità di spostare la pressione sugli avversari non è più stata sufficiente. Nell’ultimo round dei test match autunnali il Sudafrica ha brutalizzato l’Inghilterra, contribuendo a far perdere la pazienza all’RFU.

Non troppo tempo fa Eddie Jones si era lasciato lasciato andare con una dichiarazione che poi si è rivelata nefasta: “L’arroganza è solo un problema quando perdi. Se vinci, si chiama fiducia in se stessi. ”  Un’aforisma che oggi gli torna in faccia come un boomerang.  Decisamente il colmo per un australiano.