Perchè i risultati al Sei Nazioni 2024 possono aprire una nuova narrazione del rugby

Tre risultati utili consecutivi nel Sei Nazioni non si erano mai visti.  Un pareggio, due vittorie, una sconfitta corto muso e una sola debacle rappresentano il miglior bottino in 24 anni di partecipazione italiana al torneo.

È il momento della festa, delle prime pagine dei giornali, dell’ottavo posto nel ranking.

Siamo dentro quella fase in cui tutti salgono sul carro dei vincitori e in fondo è giusto così, dobbiamo godere di una competitività che aspettavamo da anni.

Sarà interessante vedere cosa ci riserverà il futuro. Gli Azzurri hanno scoperto le carte e non possono più limitarsi a qualche sporadico squillo intervallato da tonfi deprimenti. Questa però è già un’altra storia, forse lontana e nemmeno troppo importante adesso.

Il presente ci racconta che non siamo la squadra più forte del mondo, ma possiamo lottare contro i migliori al mondo senza più complessi di inferiorità. Questo grazie ad un mese e mezzo di partite interpretato alla perfezione, gestito da un head coach molto preparato e finalizzato da un gruppo di giocatori ambiziosi, capaci di seguirlo.

Non era facile ripartire dopo la RWC, ci siamo riusciti

Prima della Coppa del Mondo francese il rugby italiano è stato investito dalla solita pletora di dichiarazioni. Per il presidente Innocenti era arrivato il grande momento del passaggio ai quarti. Il clima generale costruito (forse inconsapevolmente) dai tifosi e dagli opinionisti ci diceva addirittura che eravamo pronti a vincere con gli All Blacks. I media ingrassavano questa convinzione con titoli altisonanti. Oggi possiamo dirlo: erano tutte scemenze.

L’Italia è arrivata al mondiale 2023 con un Sei Nazioni alle spalle che in tanti avevano definito positivo solo per meri criteri estetici. Che tradotto vuol dire: giochiamo bene in attacco, facciamo mete da cineteca e quindi possiamo giocarcela con chiunque, nonostante 5 sconfitte su 5 partite e un bel cucchiaio di legno tra le mani. Anche questa era una scemenza.

L’epilogo della nostra RWC lo conoscono tutti. L’Italia è tornata a casa con le ossa rotte e il morale sotto i tacchi. Nel frattempo Gonzalo Quesada ha studiato il nostro movimento, ha messo insieme i pezzi di un puzzle confuso e ha provato a ricomporli, senza strombazzate, senza alzare eccessivamente l’asticella delle aspettative.

Kieran Crowley prima di lui aveva plasmato una buona intelaiatura. Intorno alla sua Italia si era rigenerato entusiasmo, il blocco targato Benetton aveva preso confidenza e se oggi molti giocatori hanno raggiunto un picco di prestazione inaspettato, il merito è anche del coach neozelandese e del suo staff.

L’italia di Crowley al suo massimo splendore 👆

Niente smargiassate e piedi per terra: bravo Gonzalo

Il merito di Quesada invece è quello di aver riportato gli Azzurri sul pianeta terra. L’Italia del 2024 è forte, ma anche molto pragmatica. Pochi voli pindarici, stop al criterio talebano per cui si riparte sempre con la palla in mano dai ventidue perchè è la nostra identità.

Nel Sei Nazioni 2024 si è vista una squadra ben miscelata. L’utilizzo del piede come arma d’attacco e non solo come strategia di liberazione è una bella novità. Il playbook di movimenti da utilizzare sui lanci del gioco è un altro elemento di crescita. Non tanto perchè i coach precedenti non avessero i loro schemi, ma soprattutto perchè con Quesada la manipolazione della difesa avversaria funziona meglio.

La gestione della comunicazione esterna è un ulteriore punto a favore del coach argentino. Da lui si è sentito parlare di cultura del lavoro, di una squadra che farà parlare di sé e di un movimento italiano che è ancora ben lontano dall’essere solido.

La famosa intervista rilasciata a Midi Olympique è assolutamente un punto a suo favore. Ha fatto uno screening perfetto del rugby italiano ed implicitamente ha detto alla Federazione: lavoriamo insieme per crescere, ma io sono il CT della nazionale e voi quelli che devono costruire le basi per farmi allenare giocatori forti. A ognuno il suo ruolo, grazie.

La nuova narrazione ovale

Il periodo positivo che sta vivendo il rugby italiano rappresenta un’occasione unica per il nostro sport. Abbiamo la possibilità di staccare definitivamente la spina con il vecchio racconto che vuole il rugby come un gioco diverso dagli altri per non meglio precisati meriti morali.

Per troppi anni abbiamo vissuto da perdenti di lusso, innamorati di noi stessi e di una serie di artifici retorici che servivano a mascherare la scarsità tecnica della palla ovale italiana. I tifosi che riempiono felicemente gli stadi per applaudire i propri beniamini anche quando prendono 80 punti sul groppone sono un esempio pregnante.

Scuole di Minirugby che agganciano le famiglie e le invogliano a portare i propri figli sul campo da rugby perché il pargolo sarà un cittadino migliore, sono un’altra prova di come abbiamo trasformato il rugby in un mal riuscito esperimento di educazione civica.

Possiamo dire finalmente stop alla mielosità e ispirarci ad un collettivo come quello italiano composto da ragazzi normali. Giovani atleti professionisti che stanno bene insieme, che hanno voglia di battere gli avversari, di festeggiare alla Cristiano Ronaldo e di essere modelli sportivi di riferimento per come lottano in campo.

Giocatori come Ignacio Brex. Partito dall’Argentina, transitato da Viadana, poi affermatosi a Treviso e successivamente in nazionale.

Un atleta che a 31 anni, dopo una lunga gavetta, è al top delle classifiche individuali di rendimento. E pazienza se ci sono ancora gli scettici che rimproverano il suo non essere italiano di nascita. La fotografia dell’Italrugby 2.0 è anche questa. Non ci resta che abbracciare la nuova elettrizzante normalità e farne tesoro per gli anni a venire.